La vendemmia è un rito antico, fatto di echi storici, poetici e agricoli che ora fonde la tradizione degli avi alle moderne tecniche enologiche.
In passato era un momento dell’anno ricco di magia, legato al mistero, alla sacralità e anche al timore, tanto che ai tempi degli antichi Romani, le cerimonie legate alla vendemmia erano celebrate sotto la protezione di Giove, il re di tutti gli Dei, affinché l’ebbrezza data dal vino non compromettesse l’equilibrio tra gli uomini e nell’universo.
Il tempo dei nuovi grappoli
Nel corso dei secoli, intere generazioni di agricoltori più o meno esperti hanno visto l’uva trasformarsi in effervescente mosto e poi in estasiante bevanda: un percorso che parte in quel periodo dell’anno in cui le giornate iniziano ad accorciarsi e le prime piogge sono un segnale inequivocabile della fine della bella stagione. Ma un rimedio c’è: a rallegrare gli animi ci pensa il vino.
Nelle varie epoche la vendemmia è stata – e in alcune zone del mondo continua a essere – una pratica agricola ricca di significati, capace di aggregare le persone e di dare impulso al tessuto socio-economico.
Come si legge in alcuni antichi manuali latini di agronomia, c’era fermento sociale già dai preparativi, che cominciavano circa quaranta giorni prima della raccolta dell’uva.
Ad “aprire le danze” erano le donne di casa che preparavano le cantine, organizzavano gli attrezzi per vendemmiare e si occupavano dei grandi vasi vinari in terracotta, che andavano rivestiti con delle resine per renderli impermeabili e quindi adattati a contenere prima il mosto e poi il vino nuovo.
Alla raccolta partecipavano uomini, donne e bambini che si riunivano nei vigneti già alle prime luci dell’alba per lavorare tutti insieme e poi all’ora di pranzo si banchettava in allegria.
La vendemmia, infatti, era un’occasione per condividere con altri un po’ tutto: un’intera annata di fatica, il lavoro che serviva per ottenere il vino nuovo e i momenti di canti e musica che accompagnavano le varie fasi della vendemmia.
Vino a suon di festa
Non solo duro lavoro. Nel calendario Romano il periodo della raccolta dell’uva era scandito da feste, che segnavano l’inizio e la fine del periodo di preparazione del vino novello. Il 19 agosto si festeggiavano le Vinalia Rustica, dedicate alla protezione dell’uva che stava maturando sulle viti degli estesi vigneti. I riti propiziatori servivano per allontanare gli eventi avversi che avrebbero potuto compromettere la vendemmia di settembre: il massimo sacerdote di Giove sacrificava un agnello per avere un raccolto abbondante e per allontanare i temporali, poi tagliava un grappolo d’uva matura e ne spremeva il succo tra le mani, offrendolo come primizia al sommo Giove.
L’11 di ottobre, quando ormai l’autunno era arrivato, si celebravano le Meditrinalia, le feste di conclusione del periodo della raccolta dell’uva. Le ore della giornata erano dedicate a danze, brindisi e calici alzati, inoltre si offriva a Giove il mosto appena estratto e se ne propiziava la buona qualità. Infine, intorno al 23 aprile, si tenevano le Vinalia Priora, in cui il vino nuovo si spillava dalle botti e si beveva in abbondanza per la prima volta, offrendone anche a Giove.
Pigiatura e torchiatura
Alla raccolta seguiva la pigiatura: i pigiatori schiacciavano i grappoli a piedi nudi, danzando a ritmo di musiche popolari suonate a turno dai presenti, così l’utile si univa al dilettevole e il lavoro diventava un momento di felicità e di raduno sociale, che vedeva i bambini tra i protagonisti principali.
Questa usanza è sopravvissuta nel corso dei secoli e in Italia era viva fino a qualche decennio fa: i nostri nonni possono raccontarci del clima festoso attorno alla vendemmia in generale e alla pigiatura in particolare, da nord a sud della Penisola senza tralasciare le isole.
Poi c’era la fase della torchiatura, cioè le vinacce pigiate venivano sottoposte a forti pressioni per estrarre quanto più succo possibile dagli acini. Per questa operazione si utilizzava il torchio, simile nel meccanismo a quello attuale, ma più faticoso da usare.
Questo attrezzo richiedeva un investimento di un certo peso, sia da punto di vista economico sia di risorse per l’organizzazione del lavoro, visto che il sistema pressa/contrappeso poteva pesare fino a dieci tonnellate. I torchi, infatti, erano di grandi dimensioni e venivano manovrati da operai esperti. Non a caso dai primi secoli dopo Cristo, sulle pietre da contrappeso venivano spesso incise le croci, un simbolo per invocare la protezione divina quando si usava il torchio, strumento sacrificante da usare.
La socialità tra vigneti e cantine
In passato la vendemmia era quindi un momento legato alla socialità, impossibile da portare avanti in solitudine. Se nel corso dell’anno il vignaiolo potava e curava le viti da solo giorno dopo giorno, durante la vendemmia si riunivano tutte le braccia della famiglia e si chiamavano a raccolta le varie forze lavoro del vicinato. Qualche volta i lavoratori arrivavano anche da altre regioni, spesso ci si aiutava con i lavori nelle rispettive vigne tra vicini e altre ancora, per l’estrazione del mosto, i grandi proprietari terrieri permettevano ai contadini di usare le proprie attrezzature (soprattutto pigiatoi e torchi) e loro in cambio si offrivano come manodopera per contribuire alla produzione del loro vino.
Vendemmiare richiedeva sì fatica, però il “ribollir dei tini”, che poi si sarebbe trasformato in vino novello, avrebbe ripagato di tutto. Oggi gli antichi insegnamenti non sono scomparsi nel dimenticatoio, ma vengono mixati alle conoscenze legate agli studi scientifici.
Forse si è perso il sentimento di gioia, di condivisione e di socialità, ma questa è un altro racconto.